Thursday, 28 June 2012

"Non abbiamo perso, abbiamo non vinto".









Involontario nonsense di Pierluigi Bersani, attuale (non si sa per quanto) segretario del PD, commentando i risultati dei ballottaggi delle amministrative.
Quando si perde una competizione si è sempre tentati di negare. Forse é un modo per gestire in modo non conflittuale le conseguenze psicologiche della sconfitta e per risparmiare energia.

La frustrazione che nasce dalla sconfitta genera rabbia e sentimenti che voglio censurare a più livelli. Un po’ perché mi è stato insegnato che arrabbiarsi non è bene. Un po’ perché la rabbia può portare allo scontro, che però spaventa e richiede un dispendio non indifferente di energie.

Meditare sulla sconfitta potrebbe mettere in discussione il mio approccio alla competizione e alla vita; comprendere i miei errori potrebbe costringermi a cambiare, il che comporterebbe un dispendio di energie.

La sconfitta pesa anche sulle aspettative deluse. Se si carica la vittoria di speranze, sogni, conseguenze e significati, il suo mancato conseguimento non mette in discussione solo il nostro passato, ma anche il nostro futuro.

Rifletto su queste cose perché ho perso.

Il concorso era il FOCUS STRIP AWARD, una competizione biennale indetta dal settimanale FOCUS (inserto di Knack/Le Vif). Non credevo che sarei stato selezionato, ma quando è successo (a quanto pare ci sono stati 10 selezionati su un totale di circa 100 candidature), ovviamente ho sperato di vincere.

Al di la delle tattiche (rivelatesi inutili) per vincere il premio di consolazione, aver mancato il primo premio mi ha seccato. E di conseguenza ho cominciato a "razionalizzare" e a riflettere sulla sconfitta.

La riflessione è stata utile, perché mi ha permesso di imparare.

VINCERE UN PREMIO ARTISTICO È DIFFICILE. Dipende certo dalla qualità del lavoro, ma in larga parte dalla giuria. Il corollario è che per facilitare la vittoria, bisognerebbe conoscere la giuria e cercare di fare il lavoro che possa piacergli maggiormente. Io e Peter non abbiamo partecipato con questo intento. Avevamo un fumetto di un certo tipo e abbiamo inviato quello. Non ci importava di essere alla moda o di ingraziarci la giuria. In questo senso solo l’essere selezionati è stato già un risultato.

Non abbiamo partecipato per vincere, o meglio, non abbiamo studiato la strategia a tavolino, abbiamo semplicemente presentato qualcosa che ci sembrava valido, consci anche dei nostri punti deboli.

(chi ha vinto ha presentato un fumetto che richiede meno lavoro dal punto di vista grafico, che lo abbiano premiato anche in vista della futura collaborazione con la rivista?)

E anche se avessimo fatto il possibile per "piacere" alla giuria, questa avrebbe potuto sempre preferici un altro concorrente.

Più che la nostra strategia, forse dovrei rivedere quell’altra cosa di cui parlavo: le aspettative che riponevo nella vittoria.

Mi avrebbe fatto diventare un "professionista" a tutti gli effetti ma devo anche ammettere (e lo dico davvero, non per sminuire la sconfitta) che ci sarebbero stati non pochi grattacapi: la vittoria avrebbe anche comportato l’onere di produrre una tavola alla settimana. Quasi impossibile senza lasciare il lavoro, cosa che ora non posso fare.

Ma ammettiamo pure la bruciatura. Ammettiamo pure la sconfitta, il fallimento, il disastro: perché sarebbe dovuta andare diversamente? Voglio dire: la giuria ha tutto il diritto di esprimere il vincitore che preferisce. Se non sono io… che ci posso fare?

Ecco. Sono contento di aver riflettuto ed elaborato su questo episodio e sono sereno.

Alcune parole sulla serata della premiazione: la mostra organizzata al museo del fumetto è bella. Le mie tavole erano presentate decorosamente, e sono tra le poche ad essere degli originali e non delle stampe digitali. La "cerimonia" stessa è stata invece una delusione. La disposizione spaziale delle persone, la difficoltà di gestire l’evento in modo bilingue, il collegamento Skype malriuscito con uno dei giurati, l’assenza di microfoni: terribile (sembra va organizzata da Italiani).

Non ho fatto comunella con gli altri autori e me ne pento un po’, ma ho passato gran parte del tempo con Peter, lo sceneggiatore, che conosco molto poco e con cui era doveroso fare una bella chiacchierata.

Chi lo sa. AUM potrebbe comunque avere un futuro.

Vi terremo informati.

Wednesday, 20 June 2012

No Excuses

Mi pareva che ci fosse una canzone che si chiamava così.
E in effetti c'è;, ma è degli Alice in Chains e dubito di conoscerla. Probabilmente la canzone che ho in mente io è un'altra che contiene la stessa espressione.

Il titolo del post siannovera nella categoria "buoni propositi/auto-redarguizioni".

Le scuse che non mi è permesso di usare sono la mancanza di tempo e di sapzio.

Bisogna scrivere e disegnare ogni giorno. Perché lo dice(va) Ray Bradbury:

"You have to write!" he would tell people. "You have to write every day! I still write every day!"

La citazione viene da un articolo di Nail Gaiman, che in numerosissime altre occasioni ha ribadito lo stesso concetto a tutti gli aspiranti scrittori.

Io non voglio essere uno scrittore, ma un fumettista, il che non mi esime dalla pratica quotidiana dello scrivere. Al contrario: mi impegna doppiamente a scrivere e a disegnare ogni giorno.

Nel libro/conversazione tra Eisner e Miller (autore quest'ultimo con sui ho dei probelmi ma che non si puó non amare proprio per questa bellissima pubblicazione), il vecchio Frank cita l'importanza dell'acquisizione di una disciplina: disegnare un certo numero di ore, sempre uguale, tutti i giorni.

Ancora questa mattina riflettevo sul perché ho sempre desiderato dare l'illustratore/fumettista. Non perché è un lavoro "figo" o "facile" (Dio sa se è difficile), ma perché se voglio anche poter vivere, avere relazioni umane significative, poter andare dal barbiere, fare la spesa, giocare coi miei figli, andare al barbecue dei vicini  e ogni tanto persino svagarmi, ecco allora devo poter disegnare durante le ore di lavoro.

Non solo: gli unici problemi  che mi sento a mio agio nel risolvere sono quelli del disegno
Qualunque altro lavoro presuppone un insieme di competenze che posso solo fingere di avere.
Davvero. La responsabilità di fare bene il mio lavoro è resa più pesante dalla paura che qualcuno prima o poi scopra che sto fingendo, che non sono un vero tecnico di computer, così come non ero un "vero cameriere", o un "vero camionista". Ci sono capitato in questi ruoli e ho cercato di recitare la parte al meglio.

Fino a quando non sarò un disegnatore professionista, dovró fare tempo per la pratica quotidiana e questo comporterà dei sacrifici.

Questi post sono un aiuto in tal senso. Mi sono accorto che scrivo male e ho il sospetto di parlare male e di conseguenza di pensare male.
Utilizzo troppo facilmente locuzioni o espressioni d'uso comune. Esagero nel tentare di creare un tono colloquiale nella mia prosa infarcendo i periodi di "dunque", "quindi", "poi" seguiti da virgole o punti di sospensione (bleah)

Che il blog diventi una palestra affinché io possa raggiungere uno stile chiaro e scorrevole e una mente agile e acuta.

Wednesday, 13 June 2012

Il Paradigma di Cenerentola

Un po’ perché di cose da dire ne avrei, un po’ perché scrivere è una disciplina pari a quelle sportive e senza allenamento non si migliora, scrivo un post.

Invece di tediarvi con resoconti noiosetti sui miei viaggi, ho deciso di tediarvi con un editorialetto.

Ho letto recentemente che negli Stati Uniti un gruppo di consumatori ha vinto una causa contro la Danone perché reputano ingannevole la pubblicità che decanta i vantaggi dell’Actimel o dell’Activia per il sistema immunitario o l’apparato digerente.

Notizie di questo genere sembrano sempre e solo arrivare dagli Stati Uniti. Forse laggiù le associazioni dei consumatori sono più forti, o forse noi Europei cauuse del genere nemmeno le intentiamo perché ci piace pensare di essere sufficientemente smaliziati da non credere alla pubblicità.

Solo un Americano può incazzarsi perché una pubblicità mente; un Francese, un Tedesco o un Italiano no.

È davvero così semplice? Se fosse vero le pubblicità in Europa sarebbero molto diverse da quelle d’oltreoceano, eppure non è il caso.

Ma non è sulle differenze congenite (se ne esistono) tra le popolazioni ai due lati dell’Atlantico che voglio parlare, ma della retorica negli spot e altri mezzi di comunicazione. Sono certo che esistono numerosi saggi e libri al riguardo, anche di stampo divulgativo, ma sono troppo pigro per ricercarli ora. Tuttalpiù fatelo da voi e mandatemi commenti.

Voglio solo condividere alcune riflessioni.

La prima volta che ho cominciato a rifletterci è stato forse 15 anni fa: il mio caro amico Cesare mi raccontò che un suo (illuminato, aggiungerei io) professore fece notare alla classe come la quasi totalità degli Spot televisivi facesse uso di immagini (implicitamente, esplicitamente o subliminalmente) sessuali.

Alle volte è chiaramente una bella ragazza in abiti succinti la cui espressione sotto la doccia è chiaramente quella della goduria, alle volte sono immagini dissimulate: simboli fallici, penetrazioni di oggetti e altre amenità. Non sono più riuscito a guardare una pubblicità di un gelato allo stesso modo.

Per un po’ è stato un sport divertente, "trova il messaggio subliminale", poi mi sono reso conto che si vinceva facile. Tutta la pubblicità (e non solo quella) funziona con questo stratagemma.

Mi sono anche reso conto che la pubblicità non titilla solo la libido, ma ricorre comunque ad archetipi ben definiti e conosciuti. Tra i più comuni c’è il paradigma di Cenerentola e della Fata Madrina: ana donna/mamma/ragazza, ha un problema di capelli grigi/sporco/mestruazioni ed ecco arrivare la soluzione magica. Alle volte portata in mano da una vera e propria presenza magica (la donnina viola del Vanish, o l’uomo attraente del Dash che sbucano da non si sa dove). Con il loro prodotto miracoloso la protagonista passa dalla miseria alla felicità (lo stesso paradigma è usato in decine di format).

Ci sono anche altri archetipi. Se avete dimestichezza coi miti o le favole (o con Jung) li scoverete da soli facilmente.

Ovviamente alcune campagne pubblicitarie sfuggono queste classificazioni. Ci sono quelle tutte buttate sul prezzo e sui soldi, altre rivolte ad esempio un pubblico di più elevata scolarizzazione (di solito per vendere beni di lusso) e pensati per chi guarda la TV molto selettivamente.

Mi ricordo una bellissima pubblicità Mercedes-Benz dove un automobile ferma su un palco di qualche Teatro d’Opera, veniva illuminata e circondata da macchine scenotecniche in modo da dare l’illusione del movimento. Il tutto condito dalle note di qualche nota Ouverture.

Ovviamente era uno spot pensato per essere apprezzato da gente che quell’auto poteva anche permettersela. Ad ogni modo l’impatto visivo e sonoro era notevole.

Altre pubblicità d’auto, pensate per un pubblico più giovane, sono un profluvio di effetti speciali: le auto volano, diventano robot, vanno sott’acqua.

Se ci si ferma a pensare un istante si capisce che è assurdo. Perché convincermi a comprare un’auto mostrandomi quello che l’auto non sarà mai in grado di fare?

Proprio questo motivo la pubblicità è stata nel passato bersaglio di numerosi comici ma i tempi cambiano e oggi sembrerebbe persino stupido costruire delle stand-up routines attorno all’assurdità degli spot: lo sappiamo tutti che il profumo Axe non farà realmente cade le donne ai tuoi piedi (chissà se negli Stati Uniti non si possa fare causa).

Beppe Grillo (prima che diventasse quello di oggi), lo aveva riassunto molto bene anni fa parlando di Berlusconi e di come il suo personaggio e il suo linguaggio fossero "pura emotività" come quello delle pubblicità.

La cosa però che mi ha colpito dopo tutti questi anni di decostruzione è come la semplice consapevolezza delle tecniche retoriche utilizzate ha disinnescato la loro efficacia su di me (almeno credo).

Quando si comincia a spostare l’attenzione dal contenuto (che cosa vende questo spot) alla tecnica, ecco che tutto diventa miracolosamente chiaro. Certo, l’impatto emotivo resta. Uno spot ben costruito si imprimerà comunque nella mia mente così come un bel paio di tette su un cartellone pubblicitario continueranno a richiamare la mia attenzione, ma poi il cervello interviene e mette le cose al suo posto.

Come gli occhiali del film Essi vivono (di John Carpenter, 1988), grandiosa metafora dell’era reaganiana (che però non ha inventato né il consumismo né questo modo di comunicare, semmai li ha eretti a valori).

Basterebbe poco per rompere il giocattolo: educare le persone sin dall’adolescenza a "smontare" la comunicazione. Non servono mica lauree.

Se ricordo correttamente le lezioni di filosofia del professor Gargiulo tuttavia, armare le menti giovani contro le tecniche di persuasione e affinare il pensiero logico era già una preoccupazione di Socrate.

Non mi pare che siano stati fatti molti passi in avanti.

Tuesday, 12 June 2012

La Banda di Vitalski



Eccomi a ricominciare il blog per l’ennesima volta.

Che ci volete fare, nei ritagli di tempo prefersico poltrire.

Ci sarebbero un mucchio di cose che meritano un update. Tanto vale cominciare da una qualsiasi.

Domenica 3 giugno mi sono recato ad Haarlem, Paesi Bassi, in occasione delle giornate delle annuali "Giornate del Fumetto" (Stripdagen)

La particolarità è che ci sono andato in qualità di disegnatore, sedendomi per la prima volta "dall’altra parte del banchetto". Nulla di trascendentale, per carità.

Il libro "Het Vrouweneiland" ha venduto poche copie dalla sua pubblicazione e pochi erano interessati a conoscere le novità della casa editrice XTRA che lo ha pubblicato, ma è stato divertente, anche per la piacevole compagnia di Vitalski, Dimistri "JangoJim", Jan-Bart(che come molti altri mi consiglia caldamente Braking Bad, che dovrò cominciare a vedere), Tony e Bert.
La visita è durata poche ore (sono quasi stato più in macchina tra andata e ritorno) e lo scopo, a detta stessa di Vitalski, era di farci vedere dall’editore par assicurarci future pubblicazioni (tra cui, spero, l’avventura del Professor Lasson che sto disegnando).
Comunque è stato bello brattare ulteriormente delle copie del libro con i miei disegnini e fare un paio di ritratti a richiesta di due ragazzini, un fratello e una sorella, che stupidamente non ho fotografato. Allego però altri scarabocchi coi quali mi sono divertito quel giorno.